Giornata internazionale per l`eliminazione della discriminazione razziale: la testimonianza di Roland Andeng
Mi chiamo Roland, sono un ragazzo di origine camerunese. Sono arrivato in Italia nel settembre del 2002, ho 29 anni e appartengo alla sezione di Cuneo.
Quando sono arrivato in Italia, ho iniziato ad abitare con i miei genitori e i miei fratelli e sorelle in un piccolo paese chiamato San Defendente in provincia di Cuneo, con circa 1000 abitanti. Nei primi anni 2000 credo che fossimo i primi stranieri del paese, e per gli abitanti del posto rappresentavamo una novità. Per alcuni eravamo una scoperta interessante, da conoscere e con cui confrontarsi; per altri, invece, degli “invasori” da guardare con diffidenza.
Non fu facile integrarsi. Quando si è piccoli e ci si ritrova in un ambiente nuovo, con persone sconosciute e una cultura diversa, si ha solo un grande desiderio: sentirsi accettati. Ero — e sono — un ragazzo introverso, ma capace di adattarsi in fretta e con tanta voglia di fare amicizia e conoscere nuove persone. Come in ogni luogo, ho incontrato sia persone intelligenti e gentili, con cui ho stretto rapporti, sia individui che, senza un motivo apparente, mi odiavano profondamente.
Il razzismo si manifestava spesso in piccoli e grandi episodi dolorosi. Ricordo che trovavo frequentemente le ruote della mia bicicletta bucate. Mi capitava di essere preso in giro per il colore della mia pelle: mi dicevano che la mia pelle sembrava “color merda”, o che somigliava agli escrementi. Mi chiamavano “scimmia” e imitavano i versi delle scimmie quando passavo. Spesso venivo escluso da gruppi di coetanei.
Queste esperienze, tra alti e bassi, mi hanno fortificato e reso la persona che sono oggi. Fortunatamente, lungo il mio cammino ho incontrato molte persone intelligenti e di buon cuore che mi hanno aiutato a superare quei momenti difficili. Ma non tutti hanno la stessa forza o la stessa fortuna. Qualcuno, purtroppo, si arrende e si lascia sopraffare. Perché, credetemi, non è facile sentirsi dire continuamente che “non sei a casa tua”.
Oggi mi sento italiano al 100% e ho costruito la mia rete sociale e professionale.
Credo che il calcio, e lo sport in generale, stia facendo progressi nella lotta contro il razzismo, anche grazie a politiche di inclusione sempre più efficaci. Tuttavia, mi sono sempre chiesto, sulla base delle mie esperienze nello sport e nella vita in generale: l’inclusione avviene davvero per una crescita culturale o è semplicemente dettata dall’interesse a sfruttare le qualità atletiche e tecniche degli atleti stranieri?
Questa domanda mi riporta ai tempi in cui giocavo a calcio nelle categorie giovanili. Nei piccoli centri, dove spesso manca una vera apertura culturale, un ragazzo con una carnagione diversa dalla loro era una novità che suscitava diffidenza, ostilità e, talvolta, razzismo. Giocavo come portiere e, nonostante fossi più bravo del mio compagno di squadra — bianco — spesso rimanevo in panchina senza una spiegazione.
Ricordo ancora una partita in cui, nonostante le mie capacità, non fui schierato. Durante il viaggio di ritorno, uno dei genitori mi disse:
“Tra te e un ragazzo bianco, se sarete alla pari nello sport o nel lavoro, sceglieranno sempre il bianco. E se un giorno tu varrai 9 e lui 8, sceglieranno comunque lui. Fidati, se vuoi riuscire in Italia, dovrai valere 10. Dovrai eccellere a tal punto che non ci sia alcun dubbio sulla tua superiorità.”
Quelle parole mi ferirono profondamente, ma col tempo mi hanno spinto a dare sempre il massimo.
Oggi sono un arbitro di calcio, attività che ho iniziato nel febbraio del 2014, dopo aver lasciato il calcio giocato perché non mi divertiva più e le ingiustizie erano troppe. Da due anni arbitro in Serie C e posso dire che, durante il mio percorso arbitrale, non ho mai subito episodi di razzismo da parte dei colleghi o dei dirigenti, né nella mia sezione né durante i raduni o le trasferte a livello nazionale. Al contrario, nella mia sezione ho trovato una seconda famiglia: persone pronte a supportarti e a considerarti parte del gruppo, indipendentemente dal colore della tua pelle. Qui conta prima la persona, poi il talento.
L`arbitro è un portatore di regole.
Fare l’arbitro ti apre la mente, ti spinge a vedere le cose in modo imparziale (non esistono colori) e a superare le barriere. Nell’ambiente arbitrale, i pochi episodi di razzismo che ho riscontrato sono arrivati dal pubblico: “Torna a casa tua!”, “Manco sai l’italiano!”, accompagnati spesso dai classici “buuuu” razzisti.
Io sono convinto che nessun bambino nasca razzista. Sono le persone che lo circondano a condizionare la sua mente. Infatti, a distanza di vent’anni, alcune delle persone che da piccolo mi trattavano con ostilità sono cambiate, hanno acquisito una mentalità più aperta e oggi mi salutano con un sorriso.
Cosa si può fare per migliorare la situazione? Dal punto di vista legislativo, credo che le norme esistenti siano sufficienti. Quello che serve è un cambiamento culturale, che parte dalle esperienze personali. Consiglio a tutti di viaggiare, di esplorare il mondo, di entrare in contatto con culture, religioni e tradizioni diverse. Conoscere il “diverso” con i propri occhi e la propria mente è l’unico modo per abbattere pregiudizi e paure. Restare confinati nel proprio ambiente, senza confrontarsi con altre realtà, ci rende “poveri” culturalmente.
Da allora, molte cose sono cambiate. Ho cambiato sport, mi sono laureato in Scienze Motorie e sto terminando la magistrale. Oggi sono anche padre di due bambine nate dalla mia relazione con una ragazza italiana.
Quelle parole, però, risuonano ancora nella mia mente e mi spingono ogni giorno a dare il massimo.
Supplemento on-line della rivista "L`Arbitro"
(aut. Tribunale di Roma n. 499 del 01/09/1989)
AIA FIGC.IT