Notizie della Sicilia

IT ALIA REDAZIONE IT ALIA REDAZIONE Pubblicato il 24/10/2012
EMIGRANTE

EMIGRANTE

Lasciare la casa e Polizzi Generosa per sempre fu per me un’esperienza molto dolorosa. Appollaiato sul pizzo di uno strapiombo solitario, il paese e le sue stradine erano state per me centro d’esperienze, nido sicuro e caloroso, e luogo di amicizie e di meravigliose memorie di bambino.

Ricordo ancora, con un nodo alla gola, la partenza per l’America nelle prime ore del mattino. Attraversai la soglia tante volte e tante volte ritornai indietro come se avessi dimenticato qualcosa o avessi mancato di dare a qualcuno il mio ultimo saluto. Nel mio cuore, mi sentii come Ovidio quando descrisse, con animo straziato, i suoi sentimenti nel famoso poema La mia ultima notte a Roma, prima di essere esiliato per sempre in Bitinia.

Tristissima noctis imago qua mihi supremum tempus in Urbe fuit…Ter limina tetigi, tersum revocatus.

(Ricordo il penosissimo pensiero di quella notte in cui passai le mie ultime ore a Roma. Tre volte toccai la soglia; tre volte ritornai indietro.)

Avevo solamente diciotto anni quando, alle quattro del mattino, attraversai per sempre la soglia del mio “caldo rifugio”. Il ricordo rattrista il mio cuore ancora oggi dopo cinquant’anni. Lasciavo tutto per emigrare in America, terra di speranze e di sogni, alla ricerca di un futuro migliore.

Mia madre e mia sorella venivano pure con me e in loro trovai l’incoraggiamento e la forza di affrontare una vita nuova in un altro paese che sarebbe stato differente dal nostro per lingua, leggi e costumi.

Prendemmo una macchina a noleggio per portarci a Palermo, capitale della Sicilia, che aprì gli occhi a questo studente unversitario che non aveva mai lasciato il paese prima d’allora per mancanza di denaro.

Iniziammo il viaggio su un piccolo aereo che ci portò a Roma. Quello fu per noi il nostro primo volo e segnò il momento del nostro più coraggioso passo verso un altro paese. Lasciavamo una società e la sua cultura per trovarci scioccati dall’incontro di un’altra che era più complessa e cosmopolita. A Roma, la nostra partenza per New York avvenne con ritardo. Mentre aspettavamo il momento d’imbarcarci, un rappresentante della TWA ci diede dei buoni per prendere qualcosa. Visto un ristorante là vicino, ci sedemmo a un tavolo vuoto con una certa trepidazione. Credendomi il più esperto conoscitore di noi tre, presi un menù e cominciai a leggerlo varie volte come se avessi seguito un libro di preghiere, scrutando sù e giù e da destra a sinistra. Alla fine, di comune accordo, decidemmo di ordinare il pasto più economico che appariva sulla lista. Presi una matita - cosa incredibile, ma vera - e feci la scelta apponendo grossi asteristichi accanto alle voci: uova sode, pane e vino. Che ignoranti viaggiatori di villaggio! Che scena! Cercavamo ancora di risparmiare quei pochi soldi che ci restavano in tasca, inconsapevoli che la compagnia aerea avrebbe pagato i nostri pasti!

Mi domando ancora oggi quale sarà stata la reazione del cameriere alla presenza di questi “viaggiatori” provinciali, sempliciotti e inesperienti!

Il nostro volo su terra e mare fu un esperienza straordinaria per me e mia sorella, ma non per mia madre che era preoccupata di una possible avarìa dell’aereo e che si chiedeva innocentemente come avrebbe potuto fare a vivere senza di noi, dimenticando che anche lei volava con noi.

Ricorderò per sempre il mio primo volo transatlantico; il primo di tanti altri voli che sarebbero seguiti negli anni avvenire. Provai il gran piacere di volare su vasti campi di nuvole come se fossero stati campi di cotone, consumando il primo pasto in aereo, e rasandomi - Chi ci crede? - con un rasoio elettrico che l’attendente al volo mi aveva generosamente prestato dopo avermi spiegato come usarlo, superando la barriera linguistica con gesti e sorrisi. Atterrammo all’Aeroporto Idlewild (oggi Aeroporto John F. Kennedy) nel pomeriggio del 21 giugno 1958 dopo un viaggio spossante che ci aveva trasportato, facendo rifornimento, da Roma a Parigi, poi a Shannon in Irlanda e finalmente a New York. Pioveva quando l’aereo atterrò. Sbarcammo e procedemmo rapidamente sulla pista verso l’edifizio d’arrivo che non era tanto lontano. Ricordo ancora vivamente il grosso ombrello che l’attendente al volo ci teneva sopra la testa per proteggerci dalla pioggia. Che scena affascinante! Quel trattamento speciale ci fece sentire importanti durante il nostro tragitto verso la stazione d’arrivo dove qualcosa di molto straordinario ci aspettava nel nostro primo incontro con l’America.

Quando arrivammo all’entrata del “terminal,” io stesi la mano per spingere le porte di vetro. Quello che successe poco dopo non lo dimenticherò mai in vita mia. Mentre stavo per raggiungere la sbarra per spingere la doppia porta, questa si aprì improvvisamente da tutti e due i lati. Per pochissimi secondi rimasi li’, stupito e a bocca aperta. Non avevo mai sentito parlare d’ occhio automatico prima di allora, e non sapevo che quell’occhio nascodesse tanta potenza magica. Che momento indimenticabile per me e che passo significante in avanti fu per noi che venivamo da un piccolo paese di montagna con i suoi ficodindia e oleandri!

Dopo tanti anni, quelle porte miracolose le ho ancora vivamente presenti come una grande espressione simbolica di amore. Quelle porte erano le braccia dell’America che ci dava il suo benvenuto con un abbraccio materno in quell’umido e afoso pomeriggio del 21 giugno 1958. Non dimenticherò mai quel momento sacro e straordinario quando i miei piedi toccarono il suolo americano.

Dal mio arrivo in questo paese sino al giorno d’oggi, continuo a celebrare il 21 giugno come il mio compleanno americano in commemorazione di questo evento così significante nella mia vita personale. In questa data, con profonda gratitudine e ringraziamento, isso la bandiera americana nell’aiuola davanti alla mia casa per commemorare l’inizio del mio attaccamento romantico a questo grande paese. Membri della famiglia vennero ad incontrarci all’aereoporto e insieme ci diriggemmo a Brooklyn dove esisteva una comunita’ italiana molto fiorente. Là, incominciai a frequentare la messa nella chiesa cattolica di San Giuseppe e a passare il tempo a Bushwick Park dove, seduto su un banco di legno, iniziai l’arduo cammino di rieducare l’orecchio alla cacofonìa degli strani suoni linguistici di Brooklyn che la gente chiamava Inglese.

Dall’opera originale inglese : Prickly Pears and Oleanders -Memoir of an Italian American- di Mario Macaluso, nella traduzione italiana dello stesso autore, in occasione del 50° anniversario del suo arrivo in America il 21 Giugno 1958.

Translated into English
Leaving my home and Polizzi Generosa forever was a heartbreaking moment. Standing proudly on the butt of a solitary cliff, the town and its streets had been the center of my life experience, a warm and safe nest, and a place of friendships and wonderful childhood memories.

I still remember, with a lump in my throat, the early morning departure for America. Several times I crossed the threshold, and as many times I crossed it back, as if I had left something behind or had forgotten to say good-bye. In my soul I felt like Ovid, who described his heart-wrenching feelings in his well-known poem My Last Night in Rome, before he had been banished to exile in Bythinia.

“Tristissima noctis imago qua mihi supremum tempus in Urbe fuit…Ter limen tetigi, tersum revocatus.”

(I remember the very sad thought of my final hours in Rome. Three times I reached the threshold… three times I turned back inside.”)

I was only eighteen years old when I crossed the threshold of my “warm haven” forever. Its recollection still hurts me today fifty years later. At four o’clock in the morning, I was leaving everything behind to emigrate to America, land of hopes and dreams, in search of a better future.

My mother and sister Rosa were coming with me, and in them I found encouragement and strength to face a new life in another country that was going to be different from ours in language, customs, and laws.

We rented a car to take us to Palermo, capital of Sicily, to begin the first leg of the trip, which was an eye-opener for this junior college student, who had never traveled before for paucity of money.

We began our journey on a tiny plane that flew us to Rome. That flight marked our first time in the air and our most courageous step towards another world. We were leaving one society and one culture to be shocked by the encounter of another, which was more complex and cosmopolitan.

In Rome our departure for New York was delayed. While we were waiting to board the plane, a TWA representative gave us coupons to get something to eat. We saw a restaurant nearby, made our way to an empty table, and sat down for lunch. We had never been to a restaurant before! As the most savvy of the group, I took a menu and read it over and over again like you would read a prayer book, up and down, and left and right. Then, of common accord, we decided to order the most economic meal listed on the menu. I took out a pencil -that’s incredible but true- and checked out with large, scholarly asterisks the items that listed hard-boiled eggs, bread, and wine. Poor village travelers! What a scene! We were trying to save the little money that we had, not realizing that the airline was paying for our meals!

I still wonder today what the waiter’s reaction must have been at the sight of those provincial, simple-minded and inexperienced travelers!

Our flight over land and sea was an extraordinary experience for me and my sister, but not for my mother, who worried all the time about crashing, and wondered how hard it would have been for her to live without us, forgetting all along that she was flying on the same plane.

I will always remember my first transatlantic flight, which was the beginning of many numerous ones in the years to come. I loved to fly over endless fields of cotton-like clouds, to eat my first meal in the air, and shave –Can you imagine? - with an electric razor that a flight attendant had graciously lent to me, upon overcoming the language barrier by gestures and smiles.

We landed at Idlewild Airport ( today JFK International Airport) in the afternoon of June 21, 1958, after a tiring trip that had taken us on refueling stops from Rome to Paris, then Shannon, and finally to New York.

It was raining when we touched down. We deplaned and quickly proceeded on the tarmac towards the terminal building, a little distance away. I vividly remember the large umbrella that a steward was holding over our head to protect us from the rain. What a fascinating scene it was! That deferential treatment made us feel like nobility, as we walked towards the arrival building where something very unique was waiting for us in our first encounter with America.

When we got to the entrance of the air terminal, I extended my hand to push the glass doors to the side. What happened next, I will never forget. When I reached out for the handlebar, both door swung wide-open. For a split second I stood there, surprised and speechless. I had never seen an automatic eye before, and had no idea of its magic powers. What an unforgettable moment it was for me and what significant step forward it was for us, who were coming form a tiny, mountain-town with its prickly pears and oleanders!

After so many years, those miraculous doors still stand vividly in my mind as a great and symbolic expression of love. They were the arms of America welcoming us with a maternal embrace in that humid and hot afternoon of June 21, 1958. I will never forget the unique and sacred moment when my feet touched the American soil.

Since my arrival to these shores, I continue to celebrate June 21st as my “American Birthday” in commemoration of this significant event in my personal life. On this date I display, with heartfelt gratitude and thanksgiving, the American Flag on the front lawn of my house to commemorate the beginning of my romance with this great country.

Family members came to meet us, and together we drove to Brooklyn where there was a very well-established Italian community. There, I attended services at Saint Joseph Patron Roman Catholic Church, and spent time in Bushwick Park where, sitting on a wooden bench, I began the arduous task of reeducating my ear to the cacophony of strange Brooklyn sounds that people called English. (pp.114-117)

Mario Macaluso, PhD

Prickly Pears and Oleanders

-Memoir of an Italian American-

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