Auschwitz Memorial - fotoracconto di Raffaele Franco
Oggi ricorre il Giorno della Memoria, la commemorazione per non dimenticare una delle più grandi macchie indelebili della storia umana. E il fatto che sia una delle più grandi e non la più grande è qualcosa che mette addosso ancora più amarezza. Ho avuto la possibilità di entrare ad Auschwitz durante le ore di chiusura, prima dell`alba, per realizzare questo progetto in partnership con il Auschwitz Memorial / Muzeum Auschwitz , proprio una settimana fa. Richiede 10 minuti del vostro tempo, forse anche meno. Grazie al Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (http://auschwitz.org), che non smetterò mai di ringraziare, ho avuto la grande possibilità di accedere al campo di Auschwitz I un’ora prima dell’apertura, prima ancora che sorgesse il sole del 21 Gennaio 2018, durante una fitta nevicata che rendeva l’atmosfera ancora più cupa e surreale. Il reportage completo è qui: http://www.raffaelefranco.com/shoah Sono passati 73 anni dall’arrivo dell’esercito russo al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, tanti, e infatti la distanza temporale inizia a pesare. La società occidentale ricorda sempre di meno, e sempre con più distacco, gli eventi che hanno caratterizzato questo luogo, ne sottolinea con sempre meno convinzione l’importanza storica e simbolica. Diviso in tre campi principali (KL Auschwitz I, Auschwitz-Birkenau II e Auschwitz-Monowitz III) e da 45 sotto-campi , è il luogo dove 1.300.000 persone hanno perso la vita, molti dei quali immediatamente dopo aver messo piede nel campo di Auschwitz-Birkenau II, ma una cospicua parte dopo settimane, mesi o persino anni di atroci e indescrivibili sofferenze e violenze. Nel tragico silenzio che circonda quel luogo, ho cominciato ad avviarmi verso l’entrata, camminando sulla neve fresca e sentendo un sempre più enorme peso addosso. La celebre porta d’ingresso del campo Auschwitz I con la scritta “Arbeit Macht Frei” “Il lavoro rende liberi”. Senza soffermarsi troppo sulla terribile ironia, vi posso assicurare che una volta varcata quella soglia, l’aria cambia. — presso Auschwitz Memorial / Muzeum Auschwitz. Il candore della neve crea un paesaggio con qualche elemento quasi romantico, le prime luci dell’alba che attraversano la spessa coltre di nubi. Se non fosse che proprio alla sinistra di questa foto, ogni mattina e ogni sera dal 1940 al 1942, un’orchestra formata da prigionieri musicisti era obbligata a suonare per accompagnare l’uscita mattutina e poi il rientro serale di quei prigionieri che andavano nei campi di lavoro della zona circostante. Una delle peggiori torture che i prigionieri dovevano subire era l’appello quotidiano. Migliaia di prigionieri erano costretti a disporsi in ordine lungo questi viali, restare immobili e in piedi per essere tutti identificati. Talvolta persino per 12-14 ore, con la pioggia, con la neve, con il freddo, non importa: il filo che separava la “vita” dalla morte, in quel frangente ma non solo, era talmente sottile che anche un piccolo movimento per alleggerire il peso da una gamba all’altra poteva rappresentare una condanna a morte. Nei primi anni la maggior parte dei prigionieri erano politici / soldati polacchi, pertanto potevano contare sulla solidarietà delle popolazioni dei villaggi vicini. Ciò significa che, soprattutto i primissimi mesi, capitava che un prigioniero riuscisse a fuggire. Quando ciò accadeva, i suoi familiari venivano arrestati e mandati ad Auschwitz. Venivano obbligati a restare in piedi per giorni interi sotto un cartello che spiegava le ragioni del loro arresto e il nome del fuggitivo, fin quando lo stesso non tornava spontaneamente o veniva catturato. Ciò è servito da forte deterrente per gli altri prigionieri, tant’è che i tentativi di fuga sono diminuiti drasticamente in pochissimo tempo. Molti dei blocchi della foto precedente ospitano delle esposizioni permanenti che mostrano, in qualche modo, la vita ad Auschwitz e cercano di far capire, ai visitatori, la gravità e le dimensioni reali dell’Olocausto, in termini di numeri e non solo. Questi, ad esempio, sono tutti gli occhiali che son stati trovati dopo la liberazione ad opera dei russi il 27 Gennaio 1945. Non rappresentano TUTTI gli occhiali indossati dai prigionieri, ma soltanto quelli che non sono stati trasportati in Germania durante l’evacuazione del campo avvenuta pochi giorni prima. Non soltanto occhiali o altri beni, i nazisti conservavano tutto, ne è una prova la sala, enorme, piena di protesi, busti, stampelle, tutti beni che venivano sottratti ai cadaveri dei prigionieri che, non abili al lavoro, erano mandati direttamente alle camere a gas prima ancora di essere registrati. Dopo la loro morte, i sonderkommando, un gruppo di prigionieri ebrei adibiti a questo genere di lavori, raccoglievano questi e altri beni ai cadaveri, e si occupavano direttamente della cremazione dei loro corpi. Sebbene ciò garantiva loro un tenore di vita nettamente migliore all’interno del campo, ad esempio baracche riscaldate e la possibilità di tenere per sé (e usare come preziosissime merci di scambio) una piccola parte dei beni trovati sui cadaveri, il loro era un compito a cui non potevano sottrarsi mai, pena la morte sia loro che dei loro cari all’interno del campo. Le testimonianze dei sonderkommando sopravvissuti sono strazianti e raccontano di suicidi frequentissimi all’interno di questo gruppo, al punto tale che ad un certo punto le SS sono state costrette a offrire un “trattamento” migliore anche ai familiari diretti dei componenti, per disincentivare il suicidio. Molti prigionieri, presi totalmente alla sprovvista al momento della cattura/sequestro, hanno preso tutto ciò che potevano e lo hanno portato con sé, e spesso ciò includeva beni quali tazze, piatti, posate, porcellane, piccoli accessori da cucina. Una serie di oggetti che raramente superava le selezioni, ma che talvolta era concesso avere all’interno del campo. Un elemento che può sembrare quasi ovvio, cioè i nomi e il numero scritto sulle valigie dei prigionieri, in realtà nasconde una tecnica di controllo piuttosto raffinata. L’arrivo dei nuovi convogli, soprattutto durante la deportazione degli ebrei ungheresi, raggiungeva cifre altissime, con diverse migliaia di nuovi arrivi ogni giorno. Questo costringeva i nazisti a gestire questa enorme massa di persone disponendo di poche unità sul campo. Nella foto successiva (la foto alla foto) si vede in modo chiaro come una colonna di migliaia di persone sia controllata soltanto da una manciata di nazisti (nell’inquadratura soltanto 4, è presumibile che non si superi la decina). Le ragioni di una mancata rivolta e dei tentativi di fuga di massa sono tante, richiedono un approfondimento che non è ragionevole affrontare qui. Uno di questi elementi, però, è proprio la scritta sulle valigie. I prigionieri venivano accolti con una brutale calma e risolutezza, nonostante l’atmosfera violenta, a loro veniva garantito che il nome riportato sulla valigia servisse a identificare il bene come proprio, e che esso venisse riconsegnato in seguito ai legittimi proprietari. La bugia, palese anche ai più sprovveduti, aveva però una sua efficacia, faceva credere ai prigionieri che tutto fosse perfettamente organizzato, e che pertanto un tentativo di fuga, considerate anche le condizioni morali e di salute, era assolutamente inutile e poteva causare la morte propria o dei propri cari. Scarpe. Una stanza lunga una decina di metri, larga almeno 5. Piena di scarpe ammucchiate, per lo più di piccola taglia, da bambino o da donna. Ciò che però trasmette ancora più angoscia e orrore è una sala più grande di questa, in cui è rigorosamente vietato scattare foto e infatti mi è stato chiesto di non farlo. Una sala che contiene 8 tonnellate di capelli. Otto tonnellate di capelli. Per farvi capire, quando tagliate mezzo metro di capelli, a malapena si sfiorano i 200 grammi. Pensate 8 milioni di grammi. I prigionieri venivano tutti rasati al loro arrivo, sia chi era destinato al campo sia chi era destinato alle camere a gas (spesso post-mortem). Lo si faceva per annullare l’individuo, per uniformare le identità eliminando tutto ciò che potesse differenziare in modo macroscopico gli uni dagli altri: i capelli e gli abiti. I nazisti cercavano poi di trarre profitto da qualunque cosa, anche dai capelli, con cui facevano sacchi, cuscini, e altri materiali con scopi di conservazione. Uscendo dai blocchi passo davanti al cortile che separa il blocco 10 dal blocco 11. Sul muro che delimita il cortile, le SS hanno fucilato decine di migliaia di persone, tra il 1941 e il 1943. Non tutti erano prigionieri del campo, anzi, una buona parte erano politici polacchi, o membri della Resistenza , o familiari dei membri della Resistenza, tra cui donne e bambini senza alcuna discriminazione. Non soltanto esecuzioni, ma anche torture di vario tipo, che portavano spesso comunque alla morte. Oggi il campo di Auschwitz I è delimitato da due linee di filo spinato, entrambe elettrificate durante gli anni di esercizio, ma non è sempre stato così. Il campo è entrato in funzione prima ancora che fosse ultimato, con una sola recinzione di filo spinato elettrificato. I tentativi di evasione, talvolta riusciti, hanno convinto le SS a costruire una seconda recinzione, rendendo di fatto molto più difficile (ma non impossibile) scappare. Ciò ha causato uno scoraggiamento complessivo e un aumento vertiginoso dei suicidi sul filo elettrificato, che nei primi anni era mal tollerato, da cui la decisione, seppur durata poco tempo, di elettrificare solo la recinzione più esterna, e non quella più interna, per togliere persino la libertà di scegliere se vivere o morire. foto/descrizione La dimora abituale di un ufficiale delle SS ad Auschwitz. Questa è, invece, la ricostruzione di un alloggio dei sonderkommando, fino alla seconda metà del 1943. Nel 1944, quando i sonderkommando hanno raggiunto gradualmente l’altissima cifra di 900 unità, per “necessità” date dal numero sempre più elevato di uccisioni giornaliere nelle camere a gas, non era più possibile garantire loro degli alloggi privaUn alloggio “tipico” dei prigionieri. In ogni cuccetta si dormiva anche in 3 o 4, a seconda del periodo, nella noncuranza più totale delle norme igieniche, causando così il diffondersi di malattie per il campo ad una velocità altissima. Eppure, non era questo che preoccupava veramente i prigionieri, ma il freddo. Questa nella foto è la ricostruzione di una baracca in muratura, una rarità nel campo di Auschwitz-Birkenau II dove la maggior parte erano di legno: prefabbricati di stalle adatte a dormitori, con alla base una fessura di circa 40 cm, aperta. Una stalla, per l’appunto. ti di questo livello. Sono stato a lungo indeciso se mettere o meno quest’immagine. Non è l’unica che ritrae le condizioni dei prigionieri dei campi di concentramento e sterminio nazisti, nei blocchi ad Auschwitz I ce ne sono diverse e anche più strazianti. Al momento dell’arrivo dei russi, il 27 Gennaio 1945, ad Auschwitz-Birkenau II erano rimasti circa 7000 prigionieri, chiusi dentro, dall’evacuazione del campo di diversi giorni prima che ha spostato tutti gli altri prigionieri (quelli giudicati più “in forze”) in altri campi più lontani dal fronte di guerra russo. Le condizioni dei sopravvissuti erano talmente critiche che le unità vicine dell’esercito russo hanno donato sin da subito le loro razioni quotidiane, e il giorno dopo è stato fatto arrivare un camion carico di pane e viveri. Tuttavia, i sopravvissuti non erano ancora liberi di uscire da quell’inferno, per questioni sanitarie: la maggior parte degli uomini pesava poco più di 30 kg, molte donne toccavano i 25 kg, e vi era un’altissima diffusione di malattie epidemiche. Diverse centinaia di medici e infermieri volontari, nei giorni immediatamente successivi alla liberazione, si sono letteralmente trasferiti all’interno del campo per prestare cure ai sopravvissuti, e i primi a lasciare il campo sono stati le centinaia di bambini ancora presenti, che sono stati adottati nel giro di qualche giorno dalle famiglie dei villaggi vicini e da diverse famiglie polacche di Cracovia. Benvenuti ad Auschwitz-Birkenau II, il campo di concentramento operativo dal 1941 come prigione di guerra per il gran numero di soldati russi catturati durante le prime fasi della guerra, e che poi è diventato il centro di sterminio più importante della Germania nazista, dove trovarono la morte circa 1.100.000 persone. Quella fila di grandi alberi che si intravede soltanto in lontananza è a 2 km dal punto da cui ho scattato la foto, e delimita uno dei confini del campo. In larghezza, si estende per 2,5 km. Nel momento di massima operatività conteneva 130.000 prigionieri contemporaneamente. L’immagine più famosa del campo di Auschwitz-Birkenau II, il complesso d’ingresso attraverso il quale passavano i convogli pieni di prigionieri, da qualsiasi parte della Germania nazista durante la guerra. È davvero difficile concepire la vastità del campo, uno dei modi è camminare seguendo i binari da una punta all’altra, consci che il campo si estendeva per altri 800 metri dopo la fine dei binari, ed è proprio quella la zona in cui sorgevano i laboratori dei medici nazisti che praticavano atroci esperimenti sulle cavie umane, sui bambini, sulle donne: Mengele, Clauberg, Schumann. Sia i laboratori che il complesso dell’infermieria sono stati fatti saltare in aria dai nazisti prima di abbandonare il campo, per distruggere le prove su ciò che si faceva effettivamente lì dentro. Da qualsiasi lato si guarda, il campo sembra non avere mai una fine. È veramente incredibile come un campo così immenso, e con diverse decine di migliaia di prigionieri, fosse gestito da un numero incredibilmente basso di SS, sotto il migliaio. Può sembrar strano, ma le ragioni per cui 130.000 prigionieri non hanno tentato una vera rivolta contro quei 800-900 nazisti (che probabilmente non avevano nemmeno pallottole sufficienti per ucciderne metà) vanno ricercate nella strategia di annichilimento dell’individuo che le SS attuavano con rigore scientifico per tutti i prigionieri, e per l’efficienza organizzazione (apparente) del campo. Anche la posizione delle vedette, delle guardie fisse, era studiata per coprire qualsiasi punto e per trasmettere l’idea, ai prigionieri, che il numero delle SS fosse ben più alto. Il campo di Auschwitz-Birkenau II era diviso per settori, separati da questi vialoni: il settore per le donne, quello per gli uomini, il settore di quarantena, il settore dei prigionieri politici e militari, e i settori “temporanei”, occupati da persone che sarebbero state liquidate di lì a poco, prevalentemente donne coi loro bambini. Al centro della linea ferrata di Auschwitz-Birkenau II è esposto uno dei vagoni originali in cui i prigionieri erano costretti a viaggiare per settimane prima di raggiungere la loro destinazione finale. In un vagone largo pochi metri quadrati, trovavano alloggio diverse centinaia di prigionieri, stipate in condizioni disumane, senza aria o acqua, durante tutta la durata del viaggio, che poteva durare qualche giorno o persino settimane. Nei carri bestiame di quel periodo, la situazione era estremamente migliore. L’immensità e il numero altissimo di costruzioni o resti di costruzioni è qualcosa che impressiona. Tutto questo spazio era una prigione disumana, un inferno, un luogo di terrore e morte. La neve, la foschia, rendono tutto surreale, letteralmente non si riesce a vedere la fine. In questo spazio vuoto sorgeva una baracca particolare, in legno, in cui nel 1944 più di 200 bambini ebrei dai 2 ai 16 anni, per lo più gemelli, è stata tenuta prigioniera e sottoposta ad esperimenti medici criminali, indescrivibili e atroci da Josef Mengele. L’incuria del regime filosovietico, che aveva tutto l’interesse a non focalizzare l’attenzione sull’Olocausto onde evitare di far solidarizzare troppo il popolo con la comunità ebraica (verso cui c’era una certa ostilità anche nell’URSS), ha fatto marcire il legno con cui erano costruite la stragrande maggioranza delle baracche dei prigionieri di Auschwitz-Birkenau II. Sebbene ci sia il progetto, in piccola parte realizzato, di ricostruirle, al momento sono rimasti solo le basi in muratura e i camini, perché ogni baracca era dotata di camino in muratura. Tuttavia vi era divieto assoluto di usarlo per riscaldarsi, e bastava che uscisse un accenno di fumo dal comignolo per provocare una violenta rappresaglia verso i prigionieri.