Commento su Maria Fuxa
Maria Fuxa: ”… vivere significa dare un senso alle cose.” Il primo approccio al discorso narrativo di Maria Fuxa mi si rivela come un’esperienza fuorviante: il flusso delle sue parole mi conduce in un mondo sconosciuto che pone continue domande per trovarne il senso chiaro e superare il subitaneo smarrimento generato dalla percezione netta di un dolore sottile e non ancora rivelato. Eppure, le brevi e delicate immagini che la sua scrittura sciorina come bianchi panni al sole primaverile, penetrano nella mia mente e sciolgono il cuore con la potenza poetica di un’anima alla ricerca del significato della propria esistenza:” Adesso tutto mi è chiaro. Finalmente trovo risposta, perché ora capisco il senso delle cose. Adesso so quale è stato il significato di tutto. … Sì, adesso io so che per troppo amore si rischia di morire. … Adesso finalmente trovo risposta. E capisco che tutto doveva andare così per un grande disegno, perché da me doveva nascere qualcosa di più bello della vita stessa che … per me mai fu bella …”. Qui, la poetessa, in un’enunciazione che può sembrare epilogo della narrazione, focalizza in realtà il nucleo fondante della sua vita: la ricerca di un significato profondo al grande dolore che doveva attraversare e il travagliato superamento del contingente, per assurgere, al dono raro e divino della poesia. Poi, segue, d’improvviso, un volo della memoria, ed ella conduce verso le sue radici lontane. Allora, le sue parole, come sottile pennello di artista rinascimentale, dipingono un aggraziato acquarello:” Sono nata a dicembre, il paese candido sotto la neve pareva un presepino. Le strade, le case immerse nel silenzio, nella pace che nascondeva l’operosità delle vite dentro le mura. ... La nostra Alia d’inverno era bellissima, mi pareva incantata , quando la guardavo da dietro i vetri.” Eppure, in questo nostalgico paesaggio dell’anima, affiora l’ombra dell’”altra” e la nostra Proserpina bambina rimane avvinghiata ai nudi piedini da una serpe mortale che viene alla luce del mondo con lei: ”… siamo nate … perché eravamo in due. Visini uguali, stessi corredini, stessi pagliaccetti, crescendo stessi abitini. … Quando andammo via piansi e piansi, mia sorella no, aveva un cuore diverso dal mio e la storia me lo confermò. …” Poi, l’io narrante compie un repentino balzo avanti nel tempo, come una fuga verso il vuoto, suggerito soltanto da un inquietante “qui” che ci incalza sull’orlo di un pozzo buio: “… qui ci portano fuori. … Sul pulmino chi ride eccitato,… chi tace e io so che quello è il silenzio della paura, perché … là ti senti protetta, sai, dopo tanto tempo, che quello è il tuo posto, l’unico possibile per te e allora uscire [è]… un atto di coraggio, come se, da un momento all’altro qualcosa possa tenderti un’imboscata. … Cosa potrà esserci dietro quell’albero? … e dietro questo angolo che sto per superare?” Ecco, dunque, che luogo e condizione umana si intuiscono e si svelano: la follia e il manicomio. Allora, una pena sconosciuta chiude a tenaglia il cuore e ti chiedi come sia possibile che tanta malinconica e poetica dolcezza sia adagiata sulla rassegnazione ad un destino sentito come ineluttabile, sullo smarrimento che spaurisce anima e mente, mentre le precipita nell’universo del silenzio, delle paure inspiegabili, sottaciute alla dimensione comune e razionale dell’essere umano. E di questa dissociazione anima / mente, così canta Maria nei suoi versi: “Dov’è il mio io?” Mi sento senz’anima E priva di corpo Staccata da terra, da cose Da vie, dai muri … da tutti Mi aggiro in angosciosa Ricerca del mio io … Smarrito, strappato, sepolto, incatenato?... non so non capisco e chi è costei che ha le sembianze del volto che si trascina con me? A questo punto, mi urge il bisogno di leggere più volte questi versi che pian piano schiudono altre porte, rimandando lontano dal faro, ad altra donna, sorella di ventura umana, di dolore e poesia di Maria Fuxa: Alda Merini, che così scrive nei suoi versi: “Manicomio è parola assai più grande delle oscure voragini del sogno, eppur veniva qualche volta al tempo filamento di azzurro o una canzone lontana di usignolo o si schiudeva la tua bocca mordendo nell’azzurro la menzogna feroce della vita. …” Versi questi, più graffianti di quelli di Maria, eppure, quel dolore acre e consapevole della propria diversità che altri chiamano follia, anche quello si veste di bellezza delicata e di levità proprie di un’anima che sa guardare inusuali prospettive della natura. Così, nella sbigottita consapevolezza dell’alterità del proprio io, Alda come Maria, nei versi che dicono la frammentarietà dell’io, cerca un filo apparentemente improbabile, che possa guidarla nei meandri del labirinto oscuro: “Sono nata il 21 a primavera ma non sapevo che nascere folle potesse scatenar tempesta. Così Proserpina lieve vede piovere sulle erbe sui grossi frumenti gentili e piangere sempre la sera. Forse è la sua preghiera. …” Comune e pervasivo nelle due poetesse è il sentimento della natura, elemento ancestrale, madre potente, foriera di resistenza nella lotta. Ma, diversamente , gli occhi di Maria guardano il mondo naturale con sguardo incantato e puro di bimba. :“Anche Mondello è un presepino, di mare però. Le barchette colorate dei pescatori, i piccoli banchi con il pesce, la torretta d’avvistamento che si affaccia proprio sulla strada, insolente e birbante come una bambina che vuole a tutti i costi attenzione e che, se non gliela dai, e ti passa vicino, ti graffia con la sua pietra gialla. Il bambinello lo metterei proprio là, in mezzo al mare, dentro una conchiglia.” Poi, in repentino contraltare, si affaccia il pensiero della morte nella deflagrante luce di luglio: “… se potessi scegliere vorrei morire d’estate, magari a luglio, in una giornata da ricordare per la sua luce accecante.” Maria ha bisogno di luce in quel luogo dove, nel delirio di una grande solitudine, perde se stessa: “ Sola “ Sola … m’innalza il mistero della luce … carezzo il mio dolore che diviene messaggio, cantico d’amore. Sola … la mia immagine tra i sospiri del vento è illuminata da un bimbo che mi si fa compagno … In questi versi, la sua poesia, come metamorfosi catartica del dolore, riesce a mettere ali al suo pensiero. Ma nelle pagine del racconto, la sua prosa con crudità fa risaltare la propria condizione , rendendo perfettamente l’indicibile che ella vive là, dove i volti si confondono e contrappongono in una smarrita e confusa memoria di sé: “… non mi ricordo più quando iniziò il tutto, ci sono stati momenti che pensavo di esserci nata là e cercavo di ricordare il viso di mia madre.” In quel luogo quasi innominato “il sonno e l’ottundimento” le “sono stati compagni per tanti anni. … tutto era così confuso, allora neanche sapevo se una madre l’avevo e non avevo forza neanche per parlare.” E come in un bozzolo, già da prima, fuori e poi “dentro quelle mura” ella “accumula dolore”, così tanto da “… poterci costruire fortezze, muraglie e castelli, come quello incantato dove sognavo di potere vivere con lui, principe affascinante che mi avrebbe fatto regina.” Da dove nasce quel grande fiume di dolore che conduce Maria alla pazzia? Ella, con generosità e animo aristocratico, in queste pagine mai chiaramente esplicita o accusa. Si limita a dire che l’inizio di questo dolore era affiorato ”quando crebbi e iniziai a voler capire le cose e il mondo … ero cresciuta nel silenzio,nell’ascolto, non schiva ma le cose dovevano essere filtrate dalla mia anima e allora spesso il silenzio era un momento necessario non una scelta, ma non capivano; quando crebbi e iniziai a chiedere, a scegliere, spesso non venivo approvata e mi rifugiavo nel silenzio …”. Più tardi, allorché “ un personaggio crudele ”, come “in ogni favola che si rispetti”, porta via, a lei, ancora fanciulla pura di cuore, il suo principe, un devastante terremoto emotivo fa crollare i suoi sogni, le sue certezze. Così Maria si avvia verso una china autodistruttiva dove viene colta da una voglia di morte che per tanto tempo l’accompagnerà. “ Perché non muoio? Mi domandavo spesso e forse ero già morta e non lo sapevo”. E lì, in manicomio, “La casa dove vengono curati i matti, i deliranti. La mia casa”, ella trova la sua famiglia, tra sorelle di sventura, come “Stella che piangeva e si strappava i capelli al pensiero della figlia che aveva lasciato quando aveva tre mesi …. Nunzia, che voleva prendersi cura di me e ogni ora veniva a frugarmi in testa per paura che prendessi i pidocchi. Lucia che rideva e rideva e che solo la puntura e la scossa facevano smettere di ridere”. E ancora, Caterina, Benedetta e Letizia. Invece, la nostra Maria, dovunque essa vada, sceglie il silenzio come riparo e pausa ristoratrice, al cui interno si alimenta e consola con i ricordi e l’amore grande per la sua terra: “… tante volte a Palermo … sognavo del nostro paese; tante volte, nei pomeriggi solitari e piovosi … di Milano, pensavo al profumo della nostra terra, caldo, denso … al giardino della mia casa festoso in primavera. Me la sono portata dentro per tutta la vita la nostra terra, come il sangue. L’ho custodita nel mio silenzio, ne ho fatto sorgente refrigerante nel deserto del dolore, tra le urla disperate delle mie compagne, le ingiurie alle nostre vite che erano considerate cose da buttare via … irrecuperabili …”. Perciò, in Maria, nonostante tutto, una forte e deliberata resistenza interiore opera, lentamente, il miracolo della rinascita. Infatti, come la sua vicenda umana insegna, a volte accade che in alcune creature, grande sensibilità e intelletto profondo, coniugandosi, possono smantellare difese e confini del limen interiore, far smarrire la normalizzata e normalizzante logicità del pensiero, facendo confondere sogno, visione e realtà. Tuttavia, nella nostra poetessa, proprio il lavorio di scavo nel sé e “nel mondo delle cose”, affina l’esacerbata capacità di porsi domande, del cercare incessantemente risposte di senso all’esistenza e alla sofferenza che ne è compagna. Da qui, la risalita: “ Così fu, credo che iniziò tutto così, per dimostrare a me stessa e agli altri che vivevo e vivere significava dare un senso alle cose, perché se Dio mi aveva dato la vita, un senso doveva avercelo.” In questo voluto affioramento verso la luce, le è compagno l’amore. Poiché, se è pur vero che “per troppo amore si può anche morire”, è proprio l’amore per l’altro da sé, per le sue compagne di sventura, che le dà forza per fare chiarezza e giustizia e di assurgere ai campi soleggiati della poesia, dove il dolore, infine, si fa compagno al perdono consolatorio e liberatorio. Da qui, il distacco dello sguardo di chi ha messo le ali per volare in una dimensione di superiore comprensione della vita e degli uomini. Palermo, 11 maggio 2015 Lavoro svolto da Martina Castagna, 4°A M/F NB: in occasione del maggio dei libri, avvenuto nella scuola superiore ITC F.Crispi