Lisbona, la fabbrica della luce

Radici & Civiltà

GUCCIONE ROMUALDO GUCCIONE ROMUALDO Pubblicato il 01/04/2016
Lisbona, la fabbrica della luce
L’eventuale pubblicazione di parziali brani musicali allegati a testi scritti è fatta a titolo di Demo, essendo essa finalizzata a documentare la relativa ricerca della rubrica “Radici & civiltà” non avente scopo di lucro, ma, piuttosto, finalità di libera divulgazione culturale.

Lisbona, la fabbrica della luce

di Concita De Gregorio


La luce rimbalza. E` per questo che entra nell`ombra, scava negli angoli, sale in alto da sotto, quasi taglia e però non fa male. Rimbalza e ogni volta raddoppia, è un diamante, è uno specchio, è una lampada bianca accesa dentro le cose. Non c`è set al mondo illuminato così, e difatti arrivano dal Giappone e dall`India per provare a rubarla: vengono i registi e i maestri della fotografia, i pittori, i medici che curano la vista. Cercano il segreto della luce di Lisbona: quella luce prodigiosa che ferma il tempo, che folgora i pensieri, che vede dentro e vede dopo, vede quello che le parole non dicono e allora ci vuole la musica che racconta il destino, poi quando non c`è più niente da vedere si aspetta: in riva al mare, da dove a saper aspettare c`è sempre qualcosa che arriva, qualcuno che torna.


Il problema di chi viene a rubare il segreto è che non può portare via da qui questa luce, perché per farla rimbalzare così ci vuole un oceano che arriva fino al Brasile, ma anche quello non basta. Ci vogliono le strade che scivolano in mare, lisce che sembrano bagnate e fatte di perla, ma anche quelle son poco. Ci vogliono i colori delle faccciate delle case, le piastrelle gialle e bianche e verdi e rosse, così mentre la luce rimbalza sulle maioliche e triplica quintuplica e prende tutti gli angoli che può si porta via anche i colori, ecco. E` così che funziona, la luce si prende quello che trova al passaggio. E allora, siccome non si può comprare l`oceano e non si possono impacchettare le strade vecchie di secoli, bisognerà provare con quelle, le piastrelle: portare a casa quintali di piastrelle e provare a lastricarci l`albergo di Hong kong, la villa di Long Island, rivestire il cortile di Colonia, la piscina e vediamo se brillano anche qui. Le richieste sono aumentate del quattocento per cento in sei anni, del miracolo di questa luce si è sparsa la voce nel globo, ma Lisona è piccola, la fabbrica è piccolissima e quelli che ci lavorano dentro sono ventotto. Inoltre, non vedono una ragione al mondo per andare di fretta, proprio nessuna.


Azulejos, si chiamano le piastrelle. Almeno questo i committenti devono saperlo. Azulejos, che vuol dire più o meno - dall`Arabo – terra cotta. Poi devono sapere che ci vuole tempo, molto tempo perché non si fanno gli acquisti per Internet, qui. Bisogna spedire una lettera, meglio in portoghese, di certo non in spagnolo per favore, e aspettare. Oppure venire di persona, suonare il campanello, e aspettare ancora. Forse non c`è nessuno, quel giorno, e allora bisogna prendere stanza in albergo e tornare il giorno dopo. Non c`è fretta, davvero. La fabbrica dei colori e della luce non ha cambiato niente di sé nemmeno da quando i Casinò di Las Vegas fanno richieste di tre milioni di pezzi, i nuovi ricchi della Cina pretendono di rivestire le loro ville in sei giorni. Pazienza, aspetteranno. Dal 1741 qui nella fabbrica di Sant`anna si lavora così. C`è un vecchio con un pennello che dipinge le mattonelle una per una. Una donna che le colora. Un ragazzo che le lucida. Un altro che controlla che non abbiano difetti: sta in piedi davanti a una pila, si china, ne prende in mano una, la guarda, la volta, la riguarda di sotto, la posa. Quindi prende la seguente, e poi quella dopo. Il tempo è un altro tempo, qui. E` come la luce: nitido e forte quanto un coltello che brilla, e immobile.


Alla fabbrica si arriva su per una salita che si chiama Calcada da Boa Hora, salita del tempo bello. E` una casetta come quelle che disegnano i bimbi, col tetto spiovente la facciata bianca, le maioliche di tutti i colori un po` sbrecciate, e nessuno in giro. Quando superi il cancello che suona un carillon, ma ancora nessuno. Alle pareti azulejos, il campionario esposto. Una donna con un`anfora in testa in costume da paesana, bianca e blu. Un pavone. Fiori, madonne sorridenti. Arabeschi arabi verdi marroni e gialli. Un cesto di frutta. Una nave in rada, e sopra la nave un esploratore col cannocchiale. Un rosone per una fontana con un viandante che riposa sotto un albero. Un`insegna che dice “sia benvenuto chi porta il bene”. Lepri, torrioni. Passa un uomo vero, con una scopa di saggina in mano. Dopo poco di nuovo il carillon, e un altro uomo, anche questo vero. Dice che le visite guidate bisogna prenotarle con molto anticipo, possibilmente mandare un fax come hanno fatto quelli della tv giapponese la settimana scorsa, ma insomma gli italiani si sa, va bene, per questa volta. “però: quanto tempo ha”? Tutto. “Allora andiamo”.


Andiamo a vedere dove nascono e come, da secoli, gli azulejos più belli del Portogallo intero e forse del mondo. Chi sono i sarti dei vestiti dei palazzi qui intorno. Non c`è elettricità, al tornio, la ruota gira a pedali. Il forno andava a legna fino a qualche anno fa. In ufficio c`è un computer. Avete un catalogo su internet? “no, no”. E come arrivano gli ordini, cosa vi chiedono quando chiedono? “sanno cosa facciamo, di solito. Se no si fidano”. Chiedono una quantità, tipo: duecento metri quadri per esterno. Poi fanno loro, qui alla fabbrica. Ogni pezzo deve stare tre giorni nello stampo, poi trenta a raffreddare e indurire. Dopo un mese si cuociono, 300 alla volta. Prima cottura, colore, seconda cottura. Controllo. Tony, che lavora qui da 40 anni, sovrintende. Victor Espadana, da 28, disegna. Sta dipingendo, a mano libera, una targa con il nome di una pubblica via: Rua Adelaide Cabete, medica, 1867/1935 lettera per lettera, stampatello, con un pennello lunghissimo appoggiato ad una specie di bacchetta di tamburo, perché non tremi. A scrivere una parola ci vogliono tre ore. A completare il disegno della targa tre giorni di lavoro. Maria De Graca è l`artista figurativa, una famiglia inglese le ha mandato la foto di una bambina che vuole riprodotta in un pannello: un quadro di ceramica bianca e blu, due settimane almeno.


L`uomo che fa le fontane ripulisce il bordo di creta dei lavabi con le mani. Al piano di sopra le operaie. Riempiono di colore i tasselli degli azulejos di stile arabo, quelli marroni e verdi, quelli più antichi, come nel 1300. Hanno la musica nei walkman, calzini e ciabatte, tengono vasi di fiori alle finestre, non alzano gli occhi nemmeno quando ci si avvicina proprio molto, proprio sopra. “No, non è vero che gli azulejos rivestono le nostre case per proteggerle dal fuoco, anzi è il contrario: ci fu un editto, il secolo scorso intorno all`anno Venti, che proibiva di rivestire gli esterni degli edifici, perché in caso di incendio si staccavano e cadevano addosso ai soccorritori. Così per qualche decennio, ma poi ci fu qualcuno che pretese di vedere questa legge, vederla scritta intendo dire, e si scoprì così che non era mai esistita. Era solo una favola, non c`era nessun divieto”.


Giù nello spaccio della fabbrica ci sono due turisti che aspettano per un acquisto, nessuno si affretta. “Vero è che la nostra fortuna l`ha fatta il terremoto. E` stato dopo il grande terremoto del 1775 che il re decise di aprire fabbriche pubbliche, molte, e chiamò artisti da tutto il paese e anche da fuori, dalla Spagna e dall`italia a lavorare alla ricostruzione. Bisognava riedificare la città, tutti lavoravano insieme. La maggior parte dei disegni tradizionali sono di quell`epoca. A parte quelli antichi, ovviamente. A parte i disegni arabi e gli animali: il coniglio o forse è una lepre, qualcuno dice un cane lungo e magro ma io credo un coniglio, è il più vecchio di tutti”. I due turisti hanno scelto un alfabeto. Dal momento in cui chiedono a quello in cui escono col pacco e la fattura passano un`ora e quaranta minuti. Un momento prego, la stampante non funziona. Si figuri. Se per lei va bene scrivo a mano. Certamente. Se mi aspetta vado a prendere un blocco. Faccia con comodo. Nello stesso lasso di tempo, sempre quell`ora e quaranta, la signora delle pulizie svuota e spolvera uno scaffale. Nello spaccio ce ne saranno seicento, di scaffali. “ poi ci sono quelli, tra i compratori stranieri, che non vogliono gli azulejos fatti adesso. Cercano gli originali. Vogliono pezzi d`epoca, e allora vanno su dagli antiquari, in Rua Dom Pedro V. Oppure cercano nelle bancarelle, ma ormai nei mercati si trovano solo pochi pezzi. E` andato via tutto”.


In Rua Dom Pedro V la bottega più prestigiosa è quella di Manuel Leitao, che difatti è vestito come un banchiere e apre solo dopo aver dato uno sguardo sul monitor del videocitofono. Ha mezzo milione di pezzi esposti, e alcuni altri milioni di azulejos in magazzino. Ne ha venduto uno a quindici mila euro, tempo fa. Uno. "Era bellissimo, un pezzo del `400. Isabella di Portogallo, la principessa che ha sposato Carlo V. L`ha comprata un collezionista”. Certo un collezionista. Cominciò suo padre nel `56, “Festeggiamo i 50 anni l`anno prossimo. Papà cominciò a raccogliere gli azulejos delle ville che si andavano ristrutturando e che sarebbero altrimenti andati distrutti.


C`è stata un`epoca in cui non ci si curava molto di conservarli intatti: gli operai picconavano e basta. Poi col tempo chi vendeva gli appartamenti e le residenze ha cominciato a disfarsi separatamente dell` arredo e dell`immobile: si è cominciata ad avere la percezione che ci fosse un mercato, insomma”.


Percezione recente, quarantanni non di più. Prima per i Portoghesi, gli azulejos erano come l`aria e come l`acqua: parte del paesaggio. Di mano anonima, oltre tutto: la secolare tradizione artiana non prevede quasi mai la firma dell`autore, per quanto i disegni siano di fattura pregiatissima. Nella sua guida della città “Quello che il turista deve vedere”, Fernando Pessoa non si sofferma mai sugli azulejos a dispetto del fatto che siano senza il minimo dubbio ciò che il turista vede di più e più a lungo, a Lisbona, con più incanto. Ne parla cinque volte appena e sempre di sfuggita, come se indicasse una panchina. Niente di rilevante. “E invece poi col tempo - spiega il mercante – gli azulejos sono diventati la nostra bandiera e la merce più preziosa. Si è riscoperto il valore della storia. Si sono ripercorse le tappe delle migrazioni e dei commerci: i portoghesi hanno imparato l`arte degli azulejos dagli Arabi, è certo, ma l`hanno molto perfezionata con tecniche di fabbricazione e di cottura nuove. Dalla Cina sono arrivati il bianco e il blu che hanno sostituito i gialli e gli ocra. E` da qui che partono per l`Olanda: sono gli ebrei portoghesi, cacciati dal paese, che portano in Olanda l`arte della nostra ceramica. Ed è da qui che partono i commerci con l`Italia e con la Spagna, e le contaminazioni delle tradizioni.”


Così i turisti fanno la fila, oggi, per entrare nel convento Da Madre de Deus dove ha sede il museo nacional do Azulejo, unico al mondo. Stanno con gli occhi tondi davanti ai 23 metri di lunghezza del “Grande panorama di Lisbona”, la città com`era prima del terremoto coi ponti torrioni le porte, le finestre , gli orologi e le croci, le nuvole in cielo e la gente per strada, i velieri con le vele ammainate in rada. Fotografano i prosciutti e le anatre appese ai ganci che qualcuno nell`800 ha dipinto per una cucina padronale. Le scimmie cinquecentesche, le madonne del Seicento. I cavalieri, gli esploratori, Vasco De Gama, certo, le dame e i giardini fioriti. Poi fuori, al mercatino di campo Santa Clara – la feira da Ladra – cercano di tirare sul prezzo di qualche piastrella sbrecciata e perdono sempre: si chiama ”mercato della ladra”, ha un certo prestigio da difendere.


Va bene lo stesso, va bene così. I palazzi che si affacciano sulla piazza sono vestiti di azulejos verdi e gialli riflettono il sole a colori. Sotto c`è un piccolo bar, i ragazzi vestiti come negli anni Settanta portano figli neonati nei marsupi e camminano scalzi. Mangiano polpette di baccalà e bevono vino rosso alla tre, alle quattro e alle cinque di sera: è sempre ora di pranzo, è sempre il tempo che decidi tu. Non c`è nessuna fretta, proprio, e poi c`è questa luce.


tratto da La Repubblica /I luoghi/Arte popolare, 22 maggio 2005




 


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