TRE RUOTE, LA LEGGENDA DELL’<i>APE</i>

Radici & Civiltà

REPORTER REPORTER Pubblicato il 17/06/2009
<b>TRE RUOTE, LA LEGGENDA DELL’<i>APE</i></b>

TRE RUOTE, LA LEGGENDA DELL’APE

A Palermo è “la Lapa”, a Trapani “la triruote”, In Italia è da sempre una compagna del popolo.
Ha sostituito il carretto, ha il suo habitat nei viottoli e nei mercati, ognuno la modifica in base al suo mestiere e lei, docile come un animale domestico, lascia fare. Poi trasferita nelle altre città ingorgate del mondo, è stata subito adottata. Come racconta un libro sull’incredibile triciclo-aeroplano.



TRE RUOTE, LA LEGGENDA DELL’APE

di FRANCO LA CECLA


All'inizio è nato come scherzo in vernacolo. Un amico argentino che vive da infiniti anni a Palermo mi chiede di fare un instant book sulla "Lapa", su quel mezzo che in Sicilia viene da sempre chiamato così, in barba ed in dispregio a tutti gli inutili apostrofi del mondo. Vernacolo "La Lapa" lo è sempre stata, fissata com'è facilmente nel paesaggio quotidiano di vigne, campagne, spiagge, trazzere in salita e strade provinciali disastrate. Carica di bambini, sulla spiaggia proletaria a fornire teglie di pasta-artigianale'>pasta "col forno" (a Palermo si dice così) e "melloni" ghiacciati con cui condire la domenica di sabbia, mare e pallone. Presente al mercato del pesce di Mazara, da dove si staccava in corsa alle quattro, alle cinque del mattino per portare le occhiate, i totani, i polpi e le sarde al mercato del Capo, della Vucciria.

Ci voleva abilità a guidarla perché tre ruote non sono quattro e anche uno come Valentino Rossi ci avrebbe trovato piuttosto imbarazzo. L'Ape si guida praticamente in piedi, con un manubrio da vespa e bisogna dargli di controsterzo perché alle curve non ti lasci sull'asfalto in una gran cascata di pesci. Le prestazioni infinite della Lapa in Sicilia erano, sono inversamente proporzionali alle sue limitate capacità. Un motore da cinquanta, a volte cento-venticinque, che deve essere stirato in seconda per darvi l'abbrivio della terza e che ha un rumore da falsetto di quartiere, un nervosismo indisponente ma anche disperante, l'Ape svegliava prima dell'alba gli abitanti già insonni dei quartieri del centro di Palermo.

Ci si metteva allora, rassegnati sulle balate dei balconi, col primo caffè della giornata a guardarne le evoluzioni, tanto si sapeva che era inutile riprendere sonno. Per i “filetti”, gli abitanti dei quartieri bene, la Lapa era il kitsch del proletariato, il ghiribizzo del loro voler a tutti costi ancora il carretto, con in più i paladini di Francia e i "giummi", i fiocchi e pennacchi che una volta addobbavano la testa annoiata del cavallo da tiro.

E le barzellette sulle Lape e i rispettivi guidatori si sprecavano: come quella che raccontava di Zu Tano che aveva dato via il mulo per comprarsi l'Ape e che si ostinava in salita a non calargli mai la seconda. Ai ragazzini molesti che gli urlavano dai lati, «Zu Tanu, calacci a secunna», calaci la seconda, lui rispondeva sprezzante: «No, s'ave a insignari», deve imparare, come se l'ostinazione del mulo si fosse trasmessa al pistone dell'Ape. Il mezzo, la "triruote" come si chiama a Trapani, è un esempio impressionante di adattabilità: ci si potevano portare pile di mobili, canestri di frutta, bare, fercoli, di Cristo e i Santa Rosalia, suocere, finocchi, carabattole di plastica, sale e cartoni. Questa sua docilità è dovuta all'essere un mezzo senza pretese, a cui non importa mostrare la marca e il tipo, ma che si nasconde in tutti i travestimenti del quotidiano. Un inno all'accessibilità totale, un google del traffico, un mezzo per svicolare tra i vicoli, per consentire il passaggio dalle trame della città vecchia ai traumi della città di viale Lazio con speculazione immobiliare e morti ammazzati.

Vernacolo,sì, con tanto di gusto per questo mezzo così nostro e così buffo, un misto tra un triciclo e un aereo- entrambi mezzi su due ruote- una presa in giro del fuoristrada e più pratico di qualunque suv, e soprattutto un mezzo gelosamente custodito dal "popolo". Per questo noi, "i filetti", lo guardavamo con una simpatia paternalista, come si guarda a qualcosa di "folclorico" e "caratteristico". Ma poi sono venuti i primi viaggi, l'allargamento degli orizzonti e uno si cominciava a rendere conto che al Cairo, a Calcutta, ad Hanoi il taxi locale, il tuk tuk dal rumore riconoscibile tra mille, altro non era che la nostra Lapa.

Solo che non era più nostra. Qui un’ intera cultura l'aveva adottata come soluzione a un traffico enorme ma efficiente e povero, era la risposta intelligente di paesi rampanti all'alterigia dell'impero dell'automobile lucida e sgassante. Ci si rendeva conto umilmente che questo mezzo aveva sostituito il risciò, liberando il cliente dal senso di colpa nei confronti del galoppo umano e lasciandogli tutto il tempo di sentirsi coinvolto nel vero sgomitante traffico di bici, cyclo, dromedari, milioni di pedoni, carretti, elefanti, scimmie, elemosinanti, burocrati sino-indiani bloccati in auto bianche. Uno da dentro, dal sedile signorile e improvvisato del tuk tuk, si sporgeva a comprare frutti, a respingere o a tenere mani, e poi si voltava verso la compagna di viaggio e capiva che quella vicinanza alle sue gambe nel bordello del mondo là fuori era la cosa più prossima alla felicità. E allora, una volta tornato a casa, si domandava: accidenti come è importante l'Italia che ha inventato tutto questo.

Poi un ingegnere che aveva lavorato alla realizzazione dell'Ape vi raccontava che invece no, la proprietà aveva deciso che non si poteva più produrre un mezzo per poveracci e aveva tolto il piede dall'acceleratore. E uno si chiedeva dove avevano buttato l'intelligenza gli italiani degli anni Ottanta, dove avevano perso il lume dell’intelletto e di com va il mondo. Possibile che non avessero capito che questo era il mezzo più potenzialmente diffondibile in Paesi come la Cina e l’India, evidentemente allora pensati come Paesi di poveracci.

Il nostro sistema automobilistico si ingolfava invece in una corsa agli spigoli di puro design, elaborava venti forme dello stesso sugo, e non capiva che l'automobile era la cosa più vecchia e superata che esistesse al mondo. Infatti la tecnologia dell'automobile è quella dei dinosauri, con tempi antidiluviani che non si accorgono di crisi energetica, sicurezza, densità urbana, sostenibilità ambientale, elasticità nel traffico, multifunzionalità. Ma scherziamo! Queste sono cose per poveracci. A noi rimane il design, la moda e il mondo là fuori ha di sicuro torto. Allora si cominciava a capire che fortuna si aveva avuta nel crescere pur da "filetti" nell'Italia popolare, nell'Italia che è fatta ancora di gente e non di operatori della comunicazione, che è fatta di problemi da risolvere con praticità.

Mentre questo autunno in via Maqueda osservavo il passaggio di una ridicola e ripulita Ape per turisti, versione caprese con tettoietta a righe (costo quindicimila Euro), ho visto arrivare un vero gioiello della tecnica, una Lapa per caldarroste, con un camino fumante portatile, che consentiva lo spostamento delle braci e delle castagne e allo stesso tempo con il suo fumo attirava l'attenzione, corredata ovviamente da specchietti, pennacchi, lustrini e lumini. Allora ho capito che per l'industria italiana non c'è speranza, i designer fanno la spola per capire com'è il mondo tra la Triennale di Cadorna e la Triennale fuoriporta della Bovina. Il mondo sta tutto lì evidentemente, cosa volete.

Forse è per questo che le nostre convenzioni internazionali si inceppano, per questo preferiscono altri a noi, perché sono stufi della nostra autoreferenzialità, è il caso di dirlo, noiosa e spocchiosa. Il mercato cinese bye bye, il mercato indiano nemmeno a pensarlo, d'altro canto Sonia Gandhi viene dalla peggio periferia di Torino, come poterla ascoltare, fortuna che se la sono presa i poveri. I poveri, questo è il tema. I poveri hanno più soluzioni pratiche dei ricchi. L'Ape è una di queste, ma lo sono i taxi collettivi, las camionetas che si fermano dove voi volete e non solo dove la linea del bus comunale pretende sia utile. Ci sono cinquanta modi diversi di muoversi in una città come Rio o Mumbaye e tutti più efficienti della nostra lugubre metropolitana.Mumbay ha il sistema di catering più efficiente del mondo. Ogni giorno, a ora di pranzo, milioni di ragazzini in bici o moto portano il cibo cucinato dalle mogli dei lavoratori ai lavoratori stessi e non sbagliano indirizzo. E Mumbay ha ventitré milioni di abitanti. Restare imbottigliati nel traffico della Cassia o in quello di corso Buenos Aires vi può fare pensare che non ci rimane che ridere della nostra incapacità di vivere. Cosa racconta l'Ape, la Lapa, la tre ruote, il tuk-tuk? Che esistono soluzioni appropriate, che il mondo può cambiare solo se i microcosmi quotidiani affrontano direttamente i problemi, se la strada ridiventa il dominio della gente e delle folle e non delle vetrine e dell'ordine pubblico della noia.

La povertà è una parola inventata dai ricchi per nascondere la propria distanza dalla realtà. I più bravi trai ricchi sono capaci di porre un fine alla povertà, eliminando fisicamente i poveri o semplicemente allontanandoli dalla propria vista. Ma poi c'è tutto il mondo intorno e le cose vi ritornano addosso come un boomerang. Come antropologo ho appreso che questa è l'antropologia della quotidianità e La Lapa mi ha insegnato più cose di Malinovski e Levi Strauss messi insieme. Non è un caso che questo è un libro molto amato e comprato da gente che con l'antropologia non c'entra nulla e sbeffeggiato dall'accademia degli antropologi nostrani. Ma si sa che l'accademia è come certi semafori inutili venduti a centinaia nel Sud d'Italia. Dovrebbero servire per indicare un passaggio o un cambiamento e invece sono ridicoli pali di Natale accesi tutto l'anno.


articolo tratto dal quotidiano “La Repubblica” del 14 giugno 2009 – sezione Cultura.


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